10 febbraio 2010

Sulle foibe e il fascismo non si vuole la verità

di Umberto Lorenzoni

già commissario del Battaglione
“Castelli” della “Brigata Piave”, zona Cansiglio

                                                                                                                  
Da qualche tempo gli eventi che, nel ’900, hanno sconvolto l’Istria sono tornati di attualità e la tragedia delle foibe viene riproposta e artatamente ingigantita in termini strumentali. Abbiamo piena coscienza che questa vicenda è stata una tragedia e che l’esodo che ne è seguito ha coinvolto la grande maggioranza delle popolazioni istro-venete causando a circa 250.000 persone l’abbandono dei paesi d’origine, la perdita delle loro case e delle loro comunità, sventagliate nel mondo spesso nell’indifferenza e talvolta nell’insofferenza di una madrepatria che le considerava un nuovo problema che andava ad aggiungersi a quelli ereditati dalla guerra perduta. La storia del confine orientale è tormentata, dolorosa, ma soprattutto complessa e difficile da portare a conoscenza della pubblica opinione. In considerazione di tale complessità, continuare a deprecare la tragedia delle foibe isolandola dal contesto storico che l’ha originata, contribuisce solo a mistificare la storia per poter fare del revisionismo a buon mercato, o peggio significa strumentalizzare cinicamente questa vicenda per usarne politicamente la memoria. A questo punto è doveroso affermare con chiarezza che la dolorosa vicenda delle foibe ha molte ascendenze ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia e pertanto, per una sua giusta comprensione è assolutamente necessario inserirla nel quadro più ampio del periodo, tra la fine della prima e lo svolgimento della seconda guerra mondiale. Un periodo che fu particolarmente tragico per una larga parte della popolazione istriana inserita in quel territorio di frontiera del Regno d’Italia. Per la verità, a

Trieste, già prima della grande guerra, l’irredentismo aveva assunto connotazioni esasperate con caratteristiche che saranno poi tipiche dello squadrismo fascista. Tra gli ideologi di questo irredentismo Ruggero Timeus Fauro asseriva: «A noi che la lotta abbia un carattere civile o incivile non importa nulla… contro questi ignavi bifolchi noi non possiamo rispondere con la severa coscienza nazionale, ma con l’odio… nell’Istria la lotta nazionale è una fatalità che non può avere il suo compimento se non nella sparizione completa di una delle due razze che si combattono... se avremo la fortuna che il governo sia quello della Patria italiana, faremo presto a sbarazzarci di tutti questi bifolchi sloveni e croati...».
strage 1

È opportuno ricordare che al signor Timeus sono tuttora dedicate alcune vie e scuole non solo a Trieste. Comunque, prima ancora del Trattato di Rapallo la popolazione dell’Istria si trovò di fronte allo squadrismo italiano in camicia nera, importato da Trieste, che in quella regione si manifestò con particolare aggressività. Il 13 luglio 1920 gruppi di fascisti, invadono la sede del Consolato Jugoslavo, poi appiccano il fuoco alla Casa del Popolo degli sloveni e dei croati triestini il “Narodni Dom” conosciuto anche come “Hotel Balkan” e il giorno seguente devastano la tipografia del giornale Edinost, gli studi di numerosi professionisti sloveni, le sedi della Banca Adriatica, della Banca di Credito di Lubiana, della Cooperativa per il Commercio e per l’Industria, della Cassa di Risparmio croata. Il Piccolo commenta così i fatti: «Le fiamme del Balkan purificano finalmente Trieste; purificano l’anima di tutti noi». Il 20 settembre 1920, Mussolini, nel discorso tenuto al Teatro Ciscutti di Pola, tra l’altro afferma: «Abbiamo incendiato l’Avanti di Milano, lo abbiamo distrutto a Roma. Abbiamo revolverato i nostri avversari nelle lotte elettorali. Abbiamo incendiato la casa croata a Trieste e l’abbiamo incendiata a Pola... Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino ma quella del bastone... Basta con le poesie. Basta con le minchionerie evangeliche». Iniziò così la feroce opera di snazionalizzazione nei confronti di quel mezzo milione di sloveni e croati che, dopo la fine della prima guerra mondiale, il Trattato di Rapallo aveva destinato a vivere entro i confini del Regno d’Italia e che doveva portare alla cancellazione della identità culturale e linguistica delle popolazioni slovene e croate dell’Istria. Furono distrutti o aboliti tutti gli enti e sodalizi culturali, sociali e sportivi della popolazione slovena e croata; sparì così ogni segno esteriore della loro presenza, vennero abolite le loro scuole di ogni grado, cessarono di uscire i loro giornali, i libri scritti nelle loro lingue furono considerati materiale sovversivo. Venne proibito tassativamente l’uso di lingue diverse dall’italiano in tutte le sedi giudiziarie. Nei negozi e locali pubblici venne proibito l’uso delle parlate locali. Vennero cancellate le insegne pubbliche e le indicazioni stradali che potessero indicare la presenza di una minoranza slava.
strage 2Fu portata a compimento, arbitrariamente e senza alcun criterio scientifico, l’opera di italianizzazione dei toponimi e dei cognomi.
Nelle chiese le messe potevano essere celebrate soltanto in italiano, le lingue croata e slovena dovettero sparire perfino dalle lapidi sepolcrali e con la loro messa al bando anche dalle scuole, i maestri slavi furono sostituiti dagli italiani che ignoravano la lingua locale e si trasformarono in strumenti di forzata assimilazione. Scomparvero così 540 scuole slovene e croate che al tempo dell’Austria contavano circa 80.000 studenti. Nell’anno scolastico 1928-’29 non ci fu più una sola scuola croata o slovena nell’Istria e sull’intero territorio della Venezia Giulia. Nella seconda metà del 1927 vennero cancellate le circa 400 associazioni culturali, ricreative ed economiche che erano ancora presenti nella regione e i loro beni furono confiscati. Vennero poi sciolte le cooperative di ogni genere cominciando da quelle di credito agricolo. Senza il loro appoggio, centinaia e centinaia di contadini slavi si indebitarono, i loro terreni furono messi all’asta insieme a fabbricati civili e agricoli ed al bestiame, venduti in gran parte all’Ente per la rinascita agraria delle Tre Venezie che iniziò un’ampia attività di bonifica etnica. Dal 1935 le terre, acquisite con l’esproprio, saranno distribuite a coloni e agrari italiani. Poi, il 5 aprile 1941, l’aggressione alla Jugoslavia, il suo smembramento con l’annessione di una parte della Slovenia, la feroce guerra che abbiamo portato in casa loro per reprimere la guerriglia partigiana, con l’aggravante di aver armato le più fanatiche e feroci fazioni, gli  ustascia e i cetnici, che scatenarono una sanguinosa repressione che causò migliaia di morti. Nella provincia di Lubiana il commissario Grazioli, con ordinanza in data 11 settembre 1941, introdusse la pena di morte. Furono istituiti tribunali militari per la repressione della resistenza. Quello di Lubiana giudicò 13.186 persone, pronunciando 83 condanne a morte, 412 all’ergastolo e oltre 3.000 a pene superiori a trent’anni di carcere. In 29 mesi di occupazione, in quella sola provincia, vennero fucilati anche 5.000 civili presi come ostaggi durante i rastrellamenti. A questi vanno aggiunte circa 200 persone bruciate vive nelle loro case o massacrate in modi diversi ed altre 7.000 in gran parte anziani, donne e bambini morti di stenti nei campi di concentramento. Complessivamente oltre 13.000 persone, il 2,6% della popolazione, furono ammazzate in quel territorio. Ci fu poi un’altra pagina vergognosa che va ricordata: la deportazione in massa di 33.000 sloveni, circa il 10% della popolazione. La circolare 3C del generale Mario Roatta (1° marzo 1942) è un documento impressionante che prevede di incendiare e demolire case e villaggi, uccidere ostaggi, internare massicciamente la popolazione. Il suo spirito è riassunto nella massima: «non dente per dente, ma testa per dente». «Occorre distruggere i paesi e sgomberare le popolazioni» ribadisce Roatta nell’agosto del 1942 ai comandanti di Corpo d’Armata. Nel verbale di una riunione dei vertici militari dell’XI Corpo d’Armata, si legge che «occorre ricordarsi che i risultati si potranno dedurre solo dal numero dei morti ribelli. Concezione dei nostri superiori: a qualunque costo deve essere ristabilito il dominio e il prestigio italiano, anche se dovessero sparire tutti gli sloveni e distrutta la Slovenia». A Gorizia, il 31 luglio 1942, il duce parla dopo Roatta e si esprime così: «…Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta... è cominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto per il bene del paese e il prestigio delle forze armate. ... Non vi preoccupate del disagio economico della popolazione. Lo ha voluto. Ne sconti le conseguenze». Il 4 agosto del 1942 il generale Ruggero inviò un fonogramma al Comando dell’XI Corpo d’Armata in cui si parlava di «briganti comunisti passati per le armi e sospetti di favoreggiamento arrestati». In una nota scritta a mano il generale Mario Robotti impose: «Chiarire bene il trattamento dei sospetti… Cosa dicono le norme 4C e quelle successive? Conclusione: si ammazza troppo poco!». Un cappellano militare, nel settembre del 1942, descrive così nel suo diario i rastrellamenti in Slovenia e in Croazia: «In tutte le abitazioni della vasta conca non si è trovata anima viva... Fino a oggi di tutti i villaggi che abbiamo incontrato, uno solo non è stato bruciato, perché destinato a ospitare il comando del reggimento; ma verrà dato alle fiamme anche questo all’atto della nostra partenza. Intanto, sopra e sotto la terra, si sta distruggendo tutto ciò che serve alla vita degli uomini e degli animali…». Sull’argomento, lo storiografo Carlo Spartaco Capogreco scrive: «In Jugoslavia il soldato italiano, oltre a quello del combattente ha svolto anche il ruolo dell’aguzzino, non di rado facendo ricorso a metodi tipicamente nazisti quali l’incendio dei villaggi, le fucilazioni di ostaggi, le deportazioni in massa dei civili e il loro internamento nei campi di concentramento». Così si è allargata quella spirale di odio e di violenze il cui esito finale sono state le foibe. Tutto questo non deve suonare giustificazione del comportamento della dirigenza del movimento partigiano jugoslavo che, nella fase finale del conflitto, abbandonò i princìpi dell’internazionalismo e sposò la tesi della espansione nazionalista, lasciando libero corso nella Venezia Giulia alla falsa equazione: «italiano uguale fascista». Equazione che non fu annullata nemmeno dal sacrificio di migliaia di caduti italiani che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, morirono combattendo in Jugoslavia inquadrati nelle divisioni partigiane “Garibaldi” e “Italia”. Italiani che da soldati di un esercito invasore seppero trasformarsi in combattenti per la libertà di quel popolo e scrissero una pagina meravigliosa, purtroppo spesso dimenticata, della Resistenza al nazifascismo. Abbiamo piena coscienza che gli eventi che hanno sconvolto l’Istria e hanno determinato l’esodo della grande maggioranza della popolazione istroveneta da quella regione, sono stati una tragedia. Ma siamo altrettanto convinti che celebrare la “Giornata del Ricordo” con il film “Il cuore nel pozzo” significa riproporre un messaggio semplice e ipocrita: «migliaia di italiani massacrati ingiustamente e altri 300.000 che hanno dovuto abbandonare la propria casa perché gli slavi selvaggi hanno voluto appropriarsi del loro territorio». È necessario reagire a questa mistificazione che tende a contrapporre ipocritamente l’immagine del “barbaro partigiano comunista titino” a quella del “bravo soldato italiano”. I vertici dell’esercito e dell’amministrazione fascista in Jugoslavia, come i generali Roatta, Robotti, Gambara, Pirzio Biroli e tanti altri, come Francesco Giunta e Giuseppe Bastianini ex governatori della Dalmazia, come il commissario Grazioli, dovevano essere processati come criminali di guerra. La mancanza di una Norimberga italiana che accertasse i gravi misfatti dell’occupazione italiana, non solo in Jugoslavia ma in tutti i Paesi che erano stati aggrediti dalle guerre fasciste, ha avuto effetti profondi sull’opinione pubblica. Ha permesso infatti che l’immagine del “bravo italiano” non fosse scalfita e che questa immagine auto assolutoria sia tutt’oggi in voga. Le celebrazioni organizzate dalla destra per la “Giornata del Ricordo” finiscono per perseguire solo lo scopo di minacciare il livello di convivenza raggiunto in questi ultimi anni dai residenti nella zona del confine italo-sloveno e i buoni rapporti che si stanno consolidando tra i nostri due popoli. La nostra Associazione deve opporsi a questa prospettiva e deve sentirsi impegnata a diffondere un messaggio di pace e di speranza per il futuro di quella terra. Un primo passo potrebbe essere quello della diffusione della relazione della Commissione storico culturale italo-slovena istituita nel 1993, dagli allora Ministri degli Esteri italiano e sloveno, Beniamino Andreatta e Loize Peterlé, al fine di avviare un cammino di riconciliazione nello spirito della nuova Europa che si stava imponendo e che ha portato all’ingresso della Slovenia nella UE. Essa ha prodotto un importante documento dal titolo: “Rapporti tra italiani e sloveni dal 1880 al 1956”. Il documento, approvato all’unanimità, venne reso noto nel 2001 ma rimase nei cassetti dei ministeri. Rappresentanti delle Istituzioni, politici, giornalisti, opinionisti hanno purtroppo ignorato questo documento, eppure esso rappresenta un fatto straordinario sia dal punto di vista del metodo che dei risultati; rappresenta un primo, importante passo verso una conoscenza condivisa della storia di quel territorio.Dobbiamo impegnarci a rilanciare una forte iniziativa culturale che finalmente faccia conoscere, a tutti gli italiani, le atrocità commesse dal fascismo nelle sue guerre di aggressione. Dobbiamo chiedere, con forza, l’istituzione di una “Giornata della consapevolezza” del male provocato, da queste aggressioni, ai popoli della Cirenaica, dell’Etiopia, della Grecia, della Jugoslavia, perché se vogliamo scongiurare il pericolo del ritorno di questo male bisogna farlo conoscere ed impedire che si continui, intenzionalmente, ad occultarlo.

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